Cittadinanza romana

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Donald L. Wasson
da , tradotto da Laura Lucardini
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La cittadinanza è e sarà sempre preziosa per qualsiasi persona. Studiando la maggior parte degli antichi imperi, si scopre che il concetto di cittadinanza, sotto qualsiasi forma, fosse pressoché inesistente. I cittadini di queste società non potevano prendere parte agli affari di governo; questi governi erano teocratici oppure sotto il controllo di un sovrano non eletto, il quale non doveva rendere conto a nessuno se non a sé stesso. Non vi erano organi di rappresentanza, né funzionari eletti. Quella ateniese fu una delle prime società a introdurre qualcosa di vagamente simile al nostro moderno concetto di cittadinanza. Più tardi i Romani crearono un sistema di governo che sollecitava la partecipazione dei cittadini. Tutti i cittadini, escluse le donne, potevano prendere parte a tutte le attività governative, usufruendo di tutti i relativi diritti e privilegi, così come di tutte le responsabilità. Sebbene le donne romane fossero considerate delle cittadine, non godevano di alcun diritto.

Inscription, Arch of Titus
Iscrizione, Arco di Tito
Mark Cartwright (CC BY-NC-SA)

Cittadinanza nella prima età repubblicana

Dopo il crollo della monarchia e la nascita della Repubblica, il controllo del governo romano fu affidato a una manciata di famiglie aristocratiche, i patrizi (da patres o “padri”). Gli abitanti/cittadini rimanenti erano i plebei, costituiti sia dai poveri, sia da molti cittadini abbienti. I plebei iniziarono presto a risentirsi della propria condizione di cittadini di seconda classe e si ribellarono, esigendo di partecipare agli affari di stato ed esercitando i propri diritti di cittadini romani. Quando la minaccia di uno sciopero divenne realtà, il compromesso a cui si giunse (il “Conflitto degli ordini”) portò alla creazione del Concilium Plebis o Consiglio Plebeo. Questo organo rappresentativo fungeva da portavoce dei plebei attraverso alcuni tribuni eletti. Il Consiglio Plebeo emanava leggi che inizialmente riguardavano solo i plebei, ma che con il passare del tempo divennero applicabili a tutti i cittadini, inclusi i patrizi.

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CON IL RICONOSCIMENTO DELLA CITTADINANZA, UN CITTADINO VIVEVA NELLO STATO DI DIRITTO E AVEVA UN LEGITTIMO INTERESSE NEL SUO GOVERNO.

Agli albori della Repubblica, al governo romano fu assegnato l’obiettivo primario di evitare il ritorno di un sovrano. L'autorità era nelle mani di un gruppo di magistrati eletti (consoli, pretori, questori ed edili), di un Senato e di alcune assemblee più piccole. Questo nuovo concetto di cittadinanza non significava tuttavia una piena eguaglianza; le differenze tra patrizi e plebei rimanevano. Nel 450 a.C., con la creazione delle Dodici Tavole, ovvero il primo codice di diritto romano, furono stabilite le regole che governavano, tra le altre cose, i rapporti tra le due classi. Con il riconoscimento della cittadinanza, un cittadino viveva nello stato di diritto e aveva un legittimo interesse nel suo governo. È interessante constatare come vi fosse questo forte desiderio di votare o, in altre parole, di essere un vero romano (civitas Romanus sum) e poter dire con orgoglio “Sono un cittadino romano”.

SPQR

Il concetto di cittadinanza romana è ben rappresentato dal logo SPQR (Senatus Populus Que Romanus), ovvero il Senato e il Popolo Romano, che compare su documenti, monumenti e persino sugli stendardi delle legioni romane. Nel suo libro Rubicone, lo storico Tom Holland sostiene che il diritto di voto rappresentava un segno di successo personale. Per essere un cittadino romano era necessario imparare a “moderare” i propri “istinti competitivi” per il bene del popolo. Per il tipico cittadino romano, il concetto di “civitas” significava non solo condividere i vantaggi dell’autogoverno, bensì anche subirne le sofferenze e le preoccupazioni. Persino i più poveri tra i cittadini romani, i proletarii, erano rappresentati (sebbene con scarsi risultati) nella comitia centuriata.

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Oltre al fatto che le donne, sebbene cittadine, non potessero partecipare alla vita politica di Roma, c’era un'altra grande fetta di popolazione che viveva al di fuori delle mura cittadine e che non aveva alcun diritto di cittadinanza: gli schiavi. La schiavitù era comune nel mondo antico ed esisteva ben prima della Repubblica, per esempio nell’impero assiro, in quello babilonese e in Grecia. Come avveniva in altre civiltà, anche a Roma molti schiavi provenivano dalle conquiste militari. La schiavitù consentiva a molti dei cittadini più benestanti di partecipare alla vita politica nella gestione dell’impero. Gli schiavi avevano molte funzioni: contadini, minatori, servitù domestica, intrattenitori e persino insegnanti. Tuttavia, diversamente da ciò che avveniva in Grecia, uno schiavo romano viveva in una società unica nel suo genere, dove poteva guadagnarsi o comprarsi la libertà (liberti) e usufruire dei vantaggi offerti dalla cittadinanza, acquisire ricchezze e potere e addirittura vedere i propri figli assumere cariche pubbliche.

The Curia
La Curia
Chris Ludwig (Copyright)

Impero: estensione della cittadinanza

Con l’espansione di Roma e con il suo desiderio di estendere i confini oltre le mura cittadine, cambiò anche il concetto di cittadinanza romana. Questa espansione introdusse una questione: come trattare queste nuove persone? Farle diventare cittadini romani? Trattarle come pari? Sebbene Roma fosse sempre stata una città di immigrati, l’ottenimento della cittadinanza per un residente era diverso da quello di una persona che viveva al fuori dalla città. Come afferma uno storico, c’era differenza tra il riconoscimento della cittadinanza per un singolo individuo rispetto a un’intera popolazione. Dopo la conquista dei Latini e dei Sanniti, emerse la questione dei “diritti” e dei “privilegi”.

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Pur rimanendo cittadini delle proprie comunità, questi nuovi alleati pretendevano le stesse libertà dei Romani. Sebbene usufruissero di molti vantaggi in qualità di alleati, come ad esempio la protezione dalle invasioni, una quota dei bottini delle imprese militari e la possibilità di sottoscrivere accordi economici, non erano trattati come veri cittadini della Repubblica. C’erano anche degli svantaggi, poiché dovevano pagare delle imposte oltre a fornire soldati; di fatto, nel 100 a.C. l’esercito romano era ormai composto per due terzi da alleati. Gli alleati appartenevano a una seconda classe non ben definita, chiamata ius Latii. Usufruivano di molti dei vantaggi dei cittadini, ma senza alcuna rappresentanza nelle assemblee cittadine. Si era un vero e proprio cittadino romano solo se si possedeva il diritto di voto.

UN PROVINCIALE (UN ABITANTE DI UNA DELLE PROVINCE) POTEVA OTTENERE LA CITTADINANZA PER LA SUA FEDELTÀ O PER I SUOI SERVIZI ALLA REPUBBLICA.

Quando l’Italia fu invasa dal generale cartaginese Annibale durante la seconda guerra punica (218 – 201 a.C.), erano già state introdotte alcune piccole modifiche; i cittadini delle comunità alleate avevano ottenuto il diritto di conubium,secondo cui i figli di un padre romano e di una madre provinciale erano considerati cittadini romani e non più figli illegittimi. Un provinciale (un abitante di una delle province) poteva ottenere la cittadinanza per la sua fedeltà o per i suoi servizi alla repubblica. Più tardi, intorno al 150 a.C., anche i magistrati di queste cittadine latine (municipia) acquisivano la cittadinanza romana. Per finire, qualsiasi Latino che si installasse nella città di Roma poteva ottenere la cittadinanza.

Via via che Roma conquistava sempre più terre nella penisola, aumentavano le tensioni all’interno di molte delle comunità esterne, poiché queste nuove popolazioni pretendevano un cambiamento della propria situazione. Sebbene potessero sposarsi con i Romani, sottoscrivere contratti e godere della libertà di movimento, la cittadinanza senza diritto di voto (civitas sine suffragio) non bastava: volevano ciò che avevano i cittadini residenti nella città, ovvero la cittadinanza con diritto di voto (optimo iure). Il tribuno Gaio Gracco (122-121 a.C) fece una proposta che avrebbe assicurato la piena cittadinanza a tutti gli alleati italiani. Gaio si scontrò purtroppo con l’opposizione sia della nobiltà, sia dei plebei; questi ultimi, in particolare, temevano la concorrenza sul mercato del lavoro e l’eventuale scarsità di cibo. Gaio propose anche altre riforme, che piacquero ad alcuni ma non ad altri (il Senato romano). La sua morte, insieme all’uccisione di 3.000 dei suoi sostenitori, mise fine alle sue proposte.

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La Guerra sociale

Il cambiamento era, tuttavia, all’orizzonte; la Guerra sociale avrebbe infatti trasformato la situazione degli alleati. Mentre i suoi compagni tribuni in Senato stavano cercando di limitare ulteriormente la cittadinanza alle comunità alleate, Marco Livio Druso proponeva di concedere loro la piena cittadinanza. La sua uccisione, nel 91 a.C., diede inizio alla Guerra sociale (91-89 a.C.), una delle più sanguinose di tutta la storia romana. Gli Etruschi e gli Umbri minacciavano di separarsi, e presto iniziarono rivolte e disordini, persino al di fuori della penisola italica. Il Senato diceva al popolo che, se queste persone avessero acquisito la cittadinanza, avrebbero assunto il governo della città. Tuttavia, i moderati ebbero la meglio e finalmente fu concessa, fatta eccezione per gli schiavi, la piena cittadinanza a tutti coloro che, sul suolo italico, non avevano mai combattuto contro Roma. Successivamente Giulio Cesare, dittatore a vita, estese la cittadinanza anche al di fuori dell’Italia, riconoscendola ai popoli della Spagna e della Gallia.

Bust of Julius Caesar
Busto di Giulio Cesare
Tataryn77 (CC BY-SA)

Cittadinanza: il predominio dei ricchi

Il significato dell’essere Romani stava cambiando; di fatto, come afferma uno storico, l’idea di essere “Latini” divenne meno etnica e più politica. A Roma riemersero molte delle vecchie questioni, ad esempio come le istituzioni potessero gestire tutti questi nuovi cittadini i quali, a loro volta, dovevano imparare cosa significasse essere chiamati Romani. Lo storico Tom Holland sostiene che essere un cittadino romano significava capire di essere davvero liberi. La nuova cittadinanza implicava tuttavia delle clausole. Il cittadino romano, dentro o fuori della città, doveva accantonare qualsiasi individualismo e concentrarsi sul bene della comunità.

Di fatto, l’acquisizione del diritto di voto da parte di chi abitava al di fuori delle mura cittadine aveva un senso solo per i ricchi. L’appartenenza alle assemblee romane non avveniva tramite il voto, bensì attraverso una democrazia diretta. A votare erano le tribù; tutti i cittadini erano infatti assegnati a una particolare tribù (spesso in base al proprio patrimonio) e ogni tribù contava come un solo voto. Tuttavia, una persona per votare doveva presentarsi di persona, cosa che solo i più ricchi potevano permettersi di fare. La cittadinanza non era eterna; se necessario, poteva essere revocata, soprattutto ai criminali.

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Ogni cinque anni ogni cittadino doveva presentarsi alla Villa Pubblica per il censimento, dichiarando il nome della moglie, il numero di figli e tutti i possedimenti (persino gli abiti e i gioielli della moglie). I cittadini romani ritenevano che il governo avesse il diritto di conoscere queste informazioni. Tutti questi dati venivano presi in esame e valutati dai magistrati cittadini (i censori), i quali potevano “promuovere o declassare i cittadini in base al loro valore”. Riguardo al valore del censimento, Tom Holland dice: “Classi, centurie e tribù, ovvero tutto ciò che consentiva di classificare un cittadino, si basavano sul censimento.”

Nel 212 d.C. l’imperatore Marco Aurelio Antonino, meglio noto come Caracalla, propose di riconoscere la piena cittadinanza a tutti gli abitanti maschi dell’impero (le donne avevano gli stessi diritti delle donne romane); questa proposta fu chiamata Constitutio Antoniniana. Molti storici si chiedono quale fosse il vero motivo di questo atto di benevolenza; alcuni ritengono che all’imperatore servissero più entrate tributarie e, poiché solo i cittadini romani pagavano le imposte di successione, l’obiettivo fosse palese. Di fatto, nel III secolo d.C. il concetto di cittadinanza e diritto al voto era diventato ormai irrilevante. Le funzioni dell’imperatore avevano sostituito quelle del Senato e delle assemblee, e i diritti di voto erano pressoché inesistenti. Roma era divisa in due gruppi: gli honestiores, ovvero i patrizi, e gli humilores, i plebei, senza alcuna distinzione legale tra le due classi. La cittadinanza aveva sempre rivestito un ruolo negli affari di governo, tuttavia con la morte di Cesare e l’ascesa al potere del suo figlio adottivo Augusto, a cui il Senato riconobbe il titolo di primo cittadino o princeps, il governo di Roma cambiò per sempre e la cittadinanza smise di essere il bene prezioso di un tempo.

Info traduttore

Laura Lucardini
Sono una traduttrice professionista con oltre 30 anni di esperienza, madre lingua italiana, vivo nel Regno Unito dal 2000. Amo la storia e l'arte.

Info autore

Donald L. Wasson
Donald insegna Storia antica, medievale e Storia degli Stati Uniti al Lincoln College di Normal, Illinois. È sempre stato (e sempre sarà) uno studioso di storia, sin da quando incontrò per la prima volta la figura di Alessandro Magno. Il suo desiderio è quello di trasmettere tale conoscenza ai suoi studenti.

Cita questo lavoro

Stile APA

Wasson, D. L. (2016, gennaio 27). Cittadinanza romana [Roman Citizenship]. (L. Lucardini, Traduttore). World History Encyclopedia. Estratto da https://www.worldhistory.org/trans/it/2-859/cittadinanza-romana/

Stile CHICAGO

Wasson, Donald L.. "Cittadinanza romana." Tradotto da Laura Lucardini. World History Encyclopedia. Modificato il gennaio 27, 2016. https://www.worldhistory.org/trans/it/2-859/cittadinanza-romana/.

Stile MLA

Wasson, Donald L.. "Cittadinanza romana." Tradotto da Laura Lucardini. World History Encyclopedia. World History Encyclopedia, 27 gen 2016. Web. 27 apr 2024.